La socialità è una caratteristica fondamentale degli esseri umani. Si passa un’intera vita a relazionarsi con gli altri, che siano parenti, amici, insegnanti, datori di lavoro o commessi di un negozio.

Lo sviluppo psicologico di ogni individuo è legato all’interazione con la società, per cui non è strano considerare e riflettere su quello che gli altri pensano di noi, dei nostri atteggiamenti e delle nostre idee.

Il problema nasce nel momento in cui questa tendenza sovrasta tutto il resto, diventando soffocante e impedendo a chi ne è vittima di vivere una normale quotidianità.

L’altro, il suo giudizio, diventa il regolatore di pensieri ed emozioni, di scelte professionali e relazionali. Il sé si annulla dietro un invisibile quanto potente altro, che decide costantemente non solo ciò che è giusto e ciò che è sbagliato ma anche successi e fallimenti.

Già negli anni Cinquanta del secolo scorso la psicologia sociale, grazie agli studi di Solomon Asch, aveva messo in evidenza quanto potente sia il giudizio altrui sul singolo individuo, specialmente se tale giudizio è condiviso all’interno di un gruppo.

L’aspetto sorprendente è che tale giudizio esterno non influenza soltanto, com’è facile immaginare, i sistemi di pensiero ma anche la percezione sensoriale.

Asch, infatti, in uno studio presentato come volto a indagare le capacità visive, dimostrò che il 76% dei partecipanti si conformava al giudizio della maggioranza persino quando questo giudizio – il semplice confronto di una linea con tre altre linee di lunghezze diverse – era clamorosamente errato.

In altre parole, la maggior parte degli individui si affidava totalmente a quanto detto dagli altri anziché credere a quanto percepito con i propri occhi. Com’è possibile? È davvero così pervasiva quest’influenza? E per quale motivo?

La paura del giudizio altrui come male minore

Gli studi di psicologia sociale forniscono un riscontro empirico a quanto ciascuno di noi sa già per esperienza diretta. Ricerchiamo costantemente l’altro, insomma, persino quando non ce ne sarebbe alcun bisogno.

Siamo cresciuti con l’idea che la bontà di ogni nostra azione dovesse essere certificata da una qualche autorità esterna; a cambiare, nel corso degli anni, è solo la forma esteriore di tale autorità, che da figura genitoriale si trasforma in insegnante e più avanti in un più vasto e anonimo pubblico.

L’altro ne sa più di noi, è questo il messaggio, e andare controcorrente espone a una qualche punizione, che in casi estremi assume la forma della discriminazione.

C’è di più: ignorare questo giudizio e fare di testa propria apre inevitabilmente a una libertà che per molti è disorientante, sinonimo di solitudine interiore.

Una voragine che, come hanno ampiamente ed elegantemente evidenziato Jean-Paul Sartre ed Eric Fromm, fa paura ai più.

Da questa condizione psicologica si tende così a fuggire; anzi, sarebbe meglio dire che non ci si avvicina neppure. Il temuto giudizio sociale, allora, sia pure col carico di paura e frustrazione che si porta dietro, diventa uno dei pochi porti sicuri in cui trovare temporaneamente riparo.

3 commenti su “Paura di essere giudicati: quando abbiamo bisogno dell’approvazione degli altri”

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